Ferrara al tempo di Borso d'Este
«Di questo signor splendido ogni intento
sarà che il popul suo viva contento»
(L. Ariosto, Orlando Furioso, III, 45)
Le parole di Ludovico Ariosto, scritte circa quarant’anni dopo la morte di Borso d’Este, restituiscono bene ciò che i sudditi e le fonti locali pensavano del primo duca di Ferrara e degli anni del suo governo. A leggere la letteratura del tempo, infatti, si ricava l’idea di una sorta di età dell’oro per la città, nella quale Borso svolse il ruolo di arbitro della pace e della prosperità.
Tra l’immagine colta e signorile di Leonello d’Este (1441-1450), appassionato interprete della cultura umanistica, e il pragmatismo interessato di Ercole I (1471-1505), che diede alla città il suo volto moderno, la figura di Borso d’Este (1450-1471) appare sostanzialmente come quella di un politico accorto, vero restauratore della dinastia malgrado le accuse di doppiezza e di spregiudicatezza che gli sono state rivolte.
È innegabile, infatti, che sotto il suo governo la città visse un lungo periodo di prosperità economica, in cui le guerre – che avevano caratterizzato gli anni precedenti e che segneranno quelli futuri – furono quasi assenti.
L’amministrazione della città e della cultura da parte di Borso fu tutta improntata all’esaltazione di se stesso come principe buono e giusto. Se ciò aveva un fine politico sin troppo evidente è altrettanto vero che di tale politica fu la città stessa a beneficiare.
Gli storici sono discordi nel descrivere la sua figura di mecenate, essendo Borso più uomo d’azione che di lettere ed essendo ogni impresa artistica da lui promossa legata alla sua immagine, come accade nella celeberrima Bibbia di Borso, ora alla Biblioteca Estense di Modena, o nella nota statua in bronzo situata sul Volto del Cavallo e andata distrutta alla fine del Settecento.
Per quanto riguarda la letteratura, si può affermare che essa non visse un periodo di particolare fortuna, come invece accadde alla corte di Leonello. Borso infatti non amava la letteratura latina. Prediligeva, al contrario, quella francese di stampo cavalleresco: i suoi ambasciatori presso le corti europee e italiane erano impegnati costantemente nel reperimento di copie della Chanson de Roland o della Entrée d’Espagne, poemi epici scritti tra il XI e il XIV secolo, da cui derivavano i soggetti iconografici degli arazzi che Borso acquistò costantemente nelle Fiandre.
Fra i letterati di corte si ricordano le figure di Ludovico Carbone e di Tito Vespasiano Strozzi. Entrambi non ebbero certo il carisma di Guarino da Verona, ma la loro attività, seppur improntata quasi esclusivamente all’esaltazione del principe, appare oggi più rilevante di quanto si ritenesse un tempo.
Il ruolo che fu della letteratura nella corte di Leonello venne, di fatto, occupato dall’astrologia in quella di Borso. Egli non compiva alcun atto se non aveva il conforto delle stelle e dei suoi astrologi di corte, primi fra tutti Michele Savonarola e Pellegrino Prisciani. Quest’ultimo ebbe un ruolo di primo piano in quanto fu non solo il bibliotecario di corte ma anche l’ideatore del ciclo di Schifanoia. A Borso si deve anche il sostanziale rinvigorimento dell’Università che, negli anni del suo governo, fu finanziata dalla Camera Ducale.
Ma il nome di Borso è legato in particolare al mutamento del territorio. Egli intraprese infatti la bonifica delle paludi presenti nel contado estense, soprattutto nell’area del Polesine, al fine di rendere fertile un territorio di fatto ostile e poco salutare. Non è un caso che tra le sue insegne il duca amasse mostrare l’immagine dell’unicorno che purifica l’acqua intingendovi il corno o l’insegna del paraduro, una staccionata di legno che fu impiegata nelle bonifiche per modificare gli argini del Po e delle sue arterie secondarie.
Anche il volto della città mutò negli anni del suo governo. Fu lui a volere nel 1451 l’ampliamento verso sud di Ferrara, allargando la cinta muraria e l’inglobamento dell’isola di Sant’Antonio in Polesine, creando uno dei luoghi che ancora oggi conserva intatto tutto il suo fascino di città quattrocentesca, dalle strette vie ciottolate e dai bassi e regolari edifici in mattone rosso. Questa importante impresa urbanistica prende il nome di “seconda addizione” o “addizione borsiana”, per distinguerla dalla prima, voluta da Nicolò III, e dalla terza, la più nota, quella promossa da Ercole I.
L’architettura, nei vent’anni della Signoria di Borso, vive così un periodo di grande fortuna. Tra il 1455 ed il 1461, il duca segue personalmente la costruzione della Certosa, situata a nord-ovest appena fuori dai confini cittadini, luogo poi mutato da Ercole I d’Este con l’integrazione della grande area all’interno delle mura.
Negli anni Sessanta, poi, fa restaurare e ampliare diversi palazzi in città, si pensi a Palazzo Paradiso, ora sede della Biblioteca Ariostea, e – soprattutto – alle ville di campagna, le famose delizie di Belfiore, di Belriguardo e di Schifanoia, per citare le più note. Era in questi ambienti che il fasto, lo stile di vita, il culto della personalità di Borso emergeva in tutta la sua opulenza e complessità. Le vicende della storia hanno devastato gran parte di questi luoghi e bisogna volgere la propria attenzione alle decorazioni del Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia per ritrovare l’immagine che Borso voleva dare di sé: quella del principe magnanimo che, sorridente, amministra il territorio sotto la protezione degli astri.